di James Boyce e CJ Polychroniou

Il capitalismo è sull’orlo di finire nel cestino della storia? E come sarebbero una società e un’economia sostenibile post-capitaliste?

Fin dall’avvio della Rivoluzione Industriale il mondo ha vissuto livelli di crescita storicamente senza precendenti, con il capitalismo che ha elevato il tenore di vita di molte nazioni. Al tempo stesso il capitalismo ha generato immense contraddizioni (sfruttamento del lavoro e della natura, enormi disuguaglianze economiche e grossolane ingiustizie sociali) ed esse sono state tradizionalmente i principali fulcri dei movimenti politici radicali che promuovevano la visione di un ordine socioeconomico giusto. Ma l’era della crescita capitalista sta oggi arrivando alla fine?

Il famoso economista James Boyce, membro anziano del Political Economy Research Institute presso l’Università del Massachusetts, Amherst, offre approfondimenti critici di tutte queste domande che dovrebbero essere cibo per il pensiero di tutti i progressisti nell’era della rinascita del socialismo democratico. Il professor Boyce è autore dell’imminente libro Economy for People and the Planet: Inequality in the Era of Climate Change e di The Case for Carbon Dividends.

Wholly Macro, Cafe Racer, JIrsak / Shutterstock – Adaoted: JR/TO

C.J.Polychroniou: Ci sono oggi economisti che sostengono che l’era della crescita economica capitalista è terminata. Il capitalismo, secondo lei, è sul letto di morte, prossimo a finire nel cestino della storia come sistemi economici precedenti come il feudalesimo?

James Boyce: La sua domanda ha in realtà due parti. Una riguarda il futuro del capitalismo, l’altra il futuro della crescita economica. Le risposte dipendono da che cosa intendiamo con entrambi questi termini, “capitalismo” e “crescita economica”.

Mi consenta di cominciare dalla crescita. Ogni volta che parliamo di questo dobbiamo chiedere: crescita di che cosa? Gli economisti convenzionali usano il termine per intendere crescita del PIL, prodotto interno lordo, il valore monetario di tutti i beni e servizi prodotti nell’economia che hanno un prezzo. Tuttavia noi sappiamo che il PIL è un miscuglio di cose che sono buone, cattive e inutili. Include non solo cose buone, come cibo e alloggi e musica, ma anche cose cattive, come i costi derivanti da guerre, carceri e disastri ambientali. Il PIL include anche cose inutili, come la corsa al rialzo della spesa per quello che Thorstein Veblen ha chiamato “consumismo vistoso”, lo scopo del quale consiste meramente nell’ottenere una posizione più elevata nell’ordine sociale della beccata, spesa che non aumenta il benessere della società poiché il guadagno di una persona è solo la perdita di un’altra. La sola cosa che tutte le voci considerate nel PIL hanno in comune è il fatto di avere un prezzo di mercato.

Al tempo stesso il PIL non conteggia molto di ciò che è molto importante per il benessere umano. Non conteggia cose buone senza un prezzo, come il lavoro non remunerato dedicato a prendersi cura dei bambini e degli anziani, o servizi all’ecosistema, o qualsiasi delle proverbiali “cose migliori della vita che sono gratis”. Non conteggia cose che riducono il nostro benessere come il degrado dell’ambiente e la violenza. Così, tutto sommato, il PIL è una misura profondamente difettosa del benessere di una società. La preoccupazione riguardo a quanto cresca è mal riposta.

Lo stesso si applica ai “limiti alla crescita”, un’espressione resa popolare da alcuni ambientalisti benintenzionati. Naturalmente ci sono limiti alla crescita, se con questo intendiamo la crescita di cose cattive come l’inquinamento, l’impoverimento delle risorse naturale, il carcere o la violenza. Nessuna di queste cose può crescere all’infinito. I limiti possono essere difficili da identificare – quale, ad esempio, è la percentuale massima della popolazione di una nazione che può essere messa in carcere? Tre per cento? Dieci? Venticinque? – ma sappiamo che un limite esiste.

Ma questo non significa che ci siano limiti anche alla crescita di tutte le cose buone, cose che migliorano il benessere umano anziché ridurlo. Non ci sono limiti naturali alla crescita dell’arte, della musica o del sapere. Ci sono limiti a quanto cibo e altri bisogni ci sono necessari, ma questi sono limiti alla domanda, non necessariamente alla nostra capacità di provvederli.

Questa distinzione fra cose buone e cose cattive non importerebbe se esse fosse legate insieme in qualche rapporto fisso e immutabile, rendendo impossibile avere di più delle une senza avere di più delle altre. Ma il rapporto buono/cattivo tra esse è variabile, non un parametro immutabile, e uno scopo fondamentale di qualsiasi economia che operi per le persone e per il pianeta consiste nel muovere il rapporto a favore delle cose buone.

Lo slogan dei “limiti alla crescita” ha oscurato questo, proprio come il PIL ha oscurato la nostra visione del benessere umano. Trasmette l’implicazione che dobbiamo far fronte a un inesorabile compromesso tra proteggere l’ambiente e promuovere il benessere economico. Ironicamente, questo è lo stesso messaggio che è diffuso dalle imprese dei combustibili fossili e dagli oppositori irriducibili della protezione dell’ambiente. Alla fine, è il messaggio che limita la crescita dello stesso ambientalismo.

Ho sostenuto che abbiamo bisogno di un nuovo slogan: Far crescere il buono e ridurre il cattivo.

E riguardo al capitalismo?

Un po’ come la crescita, il “capitalismo” è un termine che può significare cose diverse per persone diverse. Per alcune significa la divisione della società in due classi avversarie: la vasta maggioranza che lavora per sopravvivere e i pochi dell’élite che vivono dei frutti del lavoro di altri in virtù della proprietà del capitale. Per altri significa semplicemente grosso modo tutto ciò che implica mercati, o lavoro salariato o la motivazione del profitto. Nel chiedersi se il capitalismo sia sul suo “letto di morte” – un’immagine migliore potrebbe essere “nelle fauci della morte”, poiché se sta morendo, non lo sta facendo dolcemente – dobbiamo spacchettare questi significati diversi.

Per me quella che non è sostenibile è la concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di pochi. Se questo è ciò che si intende per capitalismo, io spero veramente che i suoi giorni siano contati. L’oligarchia, che è il nome della ricchezza e del potere concentrati, è un male per la gente non solo perché condanna molti alla povertà e all’impotenza, ma anche perché erode e la fiducia e l’affetto mutui senza i quali una società non può funzionare felicemente o bene. Ed è un male per il pianeta perché consente a quelli in cima alla piramide di usare e abusare dell’ambiente – sia come fonte di materie prime sia come discarica per lo smaltimento dei rifiuti – a spese di tutti gli altri.

Storicamente la sinistra politica ha considerato l’oligarchia come la conseguenza di mercati non disciplinati mentre la destra politica l’ha considerata la conseguenza di uno stato senza limiti. In verità, tuttavia, la caratteristica che definisce l’oligarchia non è il rapporto tra mercato e stato. La sua caratteristica definitrice è la distribuzione fortemente ineguale della ricchezza e del potere. Se il potere d’acquisto e il potere politico sono concentrati nelle mani di pochi, non importa se abbiamo un’economia di “libero mercato” o un’economia gestita dallo stato: il risultato saranno conseguenze infelici per la maggior parte delle persone e anche per il pianeta.

Il capitalismo non può esistere senza mercati. I mercati possono esistere senza capitalismo?

Certo. Mercati esistevano prima del capitalismo e mercati esisteranno dopo il capitalismo, comunque lo si definisca.

Eccovi un esperimento mentale: immaginate una società in cui una fetta sostanziale dei beni sia di proprietà di tutti in misura uguale e comune. Questi beni – chiamiamoli proprietà universale – includerebbero doni della natura, come gli alberi del bosco, il pesce del mare e i minerali della terra e comprenderebbero anche alcune delle infrastrutture istituzionali che la società crea e mantiene, come i sistemi finanziari e quelli dei brevetti. Questi beni generano reddito sotto forma di pagamenti per l’uso delle risorse della natura e delle fognature, tasse sulle transazioni finanziarie e una quota dei diritti sulle innovazioni brevettate. Si immagini che il reddito derivato da questi beni sia pagato in dividendi uguali, mensili o trimestrali, a ogni persona; chiamiamolo reddito dalla proprietà universale.

Il risultato sarebbe un ugualmente sostanziale livellamento del terreno di gioco dell’economia. Ci sarebbero ancora mercati, nel senso di pagamenti di beni e servizi. Ci sarebbero ancora salari, nel senso di persone pagate per il lavoro che svolgono. Ci sarebbe ancora la motivazione del profitto, nel senso che le persone cercherebbero ritorni favorevoli dei loro investimenti di tempo e capitale. E ci sarebbero ancora altri beni non universali di proprietà privata individuale e cooperativa e aziendale, o di proprietà pubblica governativa. Ma comunque si voglia chiamare il risultato non si tratterebbe di capitalismo come lo conosciamo oggi. Invece la proprietà universale inietterebbe una dose di uguaglianza nella distribuzione della ricchezza e del potere. Agirebbe come una specie di anticorpo, rafforzando il sistema immunitario del nostro organismo politico contro l’oligarchia.

Questa visione potrebbe essere chiamata un nuovo genere di capitalismo. O la si potrebbe chiamare socialismo libertario, un’idea abbracciata da Noam Chomsky tra gli altri. Per me il nome è meno importante della sostanza: una distribuzione democratica di ricchezza e potere.

Quali forme di resistenza potrebbero essere utili al fine di accelerare la transizione a un’economica che operi per le persone e per il pianeta?

Sono lieto che lei chieda di “forme” di resistenza, non presupponendo che ci sia un’unica via giusta. Abbiamo bisogno di forgiare una vasta alleanza di persone che agiscano a molteplici livelli: personale, locale, regionale, nazionale e globale.

A livello personale vediamo persone che scelgono di condurre le loro vite – di lavorare, consumare e impegnarsi in attività civiche – in modi che riflettono valori a favore delle persone e del pianeta, resistendo alla tentazione di guardare dall’altra parte.

A livello locale vediamo persone che lottano per la giustizia ambientale, difendendo il fondamentale diritto umano a un ambiente pulito e sano. Vediamo la crescita di aziende cooperative, iniziative di nuova agricoltura e energia pulita a base comunitaria che, insieme, a volte sono descritte come “economia solidale”, che incuba alternative allo status quo.

A livello regionale, vediamo sforzi di sviluppare sistemi di trasporto a basso carbonio o senza carbonio, di salvaguardare l’acqua pulita e i terreni pubblici e di costruire alleanze attraverso diverse comunità che condividono un impegno a costruire un’economia che opera per le persone e per il pianeta.

Ai livelli nazionale e globale vediamo sforzi di mobilitare le persone a pretendere politiche che garantiscano l’accesso all’assistenza sanitaria e all’istruzione per tutti, che proteggano l’ambiente, che promuovano la pace e invertano la tossica concentrazione di ricchezza e potere nella mani dell’”un per cento”.

Attraverso tutte queste vie le persone si stanno opponendo alla degradazione del benessere umano e dell’ambiente e stanno cercando di creare un terreno di gioco più equo, di costruire un’economia più resiliente e di creare una democrazia più vivace.

A volte assistiamo alla tentazione di scartare gli sforzi e le vie perseguiti da altri come meno importanti o meno virtuosi dei nostri come “false soluzioni”, inutili o persino controproducenti. Questo genere di arroganza a taglia unica nasce dall’egoismo, dalla grettezza e dalla mancanza di immaginazione. E’ nemico della costruzione delle alleanze di cui abbiamo bisogno. Così anche il dogmatismo è qualcosa cui dovremmo opporci.

C’è speranza per il pianeta, considerato che l’umanità è sull’orlo di un precipizio a causa del cambiamento climatico globale? C’è una strada da percorrere?

C’è un vasto terreno intermedio tra le posizioni estreme di affermare che il cambiamento climatico non è un problema e affermare che è la fine del mondo. Entrambe sono forme di negazionismo. La prima nega la realtà dello stesso cambiamento climatico; la seconda nega la realtà che possiamo fare qualcosa al riguardo.

Siamo seri! Il pianeta sopravvivrà al cambiamento climatico. La vita sulla Terra sopravvivrà al cambiamento climatico anche se, a meno che interveniamo oggi, molte specie non sopravvivranno. Anche gli esseri umani sopravvivranno anche se, a meno che interveniamo oggi, molti potranno non sopravvivere e molti di più subiranno sofferenze non necessarie.

Ma abbiamo di fronte un continuum di possibilità. Quanto più carbonio scarichiamo nell’atmosfera, tanto peggio andranno le cose. In realtà esponenzialmente peggio: se le temperature globali aumenteranno di 3 gradi centigradi sopra il livello preindustriale, invece di 1,5 gradi, i danni non saranno semplicemente il doppio, ma maggiori di diversi multipli. Dove finiranno l’umanità e il pianeta dipenderà, soprattutto, da quanto rapidamente smetteremo di usare combustibili fossili e passere invece all’energia pulita. Come ha detto la climatologa Kate Marvel [citando lo scienziato dei sistemi terrestri Benjamin Cook], “non è un promossi o bocciati”.

La buona notizia è che possiamo agire oggi per limitare il livello del danno. La cattiva notizia è che non stiamo agendo neppur lontanamente abbastanza rapidamente. I limiti vincolanti sono politici, non tecnici.

Io ritengo che ci siano quattro arene principali nelle quali dobbiamo agire. La prima consiste nel minimizzare la misura del cambiamento climatico, soprattutto riducendo il nostro uso di combustibili fossili. A livello di politiche pubbliche ciò richiederà un insieme di misure complementari: un prezzo del carbonio ancorato a duri obiettivi di emissioni; investimenti in energie pulite e in efficienza energetica e regole intelligenti mirate a sostenere una transizione efficiente ed equa all’energia pulita.

La seconda arena consiste nell’adattamento. E’ troppo tardi per prevenire interamente il cambiamento climatico. Dunque dovremo investire in adattamento così come in mitigazione. Qui una domanda centrale è come le risorse disponibili per l’adattamento debbano essere allocate tra ed entro i paesi. L’economia convenzionale assegnerebbe priorità a proteggere le vite e le proprietà più “preziose”, in altri termini, proteggere i più ricchie e più potenti e i loro beni. Di fronte alla crescita dei livelli dei mari e all’impennata dei rischi di tempeste, ad esempio, potremmo assistere alla costruzione di argini marini che proteggano immobili costosi deviando le inondazioni su comunità povere. Un approccio basato sui diritti partirebbe da una premessa radicalmente diversa: il principio che il diritti a un ambiente sicuro è detenuto in misura uguale da tutti. Non è né una merce da allocare sulla base del potere d’acquisto, né un privilegio che dovrebbe essere allocato sulla base del potere politico. In questa visione gli investimenti per l’adattamento dovrebbero essere diretti dai bisogni umani, attribuendo priorità alle comunità che ne hanno maggior bisogno.

La terza arena d’azione consiste nel costruire modi che riducendo l’uso di combustibili fossili possano realizzare miglioramenti immediati e tangibili della salute pubblica migliorando la qualità dell’aria. Il consumo di combustibili fossili rilascia non solo anidride carbonica, la principale responsabile del cambiamento climatico, ma anche molti altri inquinanti sporchi che danneggiano la salute umana. Mentre i danni del cambiamento climatico sono a lungo termine e diffusi in tutto il globo, i danni dell’inquinamento atmosferico sono di breve termine e più localizzati, accrescendone la rilevanza politica. Ha senso tagliare le emissioni dove i benefici per la qualità dell’aria – noti in politica climatica come “co-benefici” – sono maggiori. Sappiamo che l’inquinamento atmosferico affligge in misura sproporzionata le persone di colore e le comunità a basso reddito, dunque questa è una materia non solo di efficienza ma anche di giustizia ambientale.

La quarta arena sono i dividendi del carbonio. Essi riciclano il denaro extra che i consumatori pagano per i combustibili fossili in conseguenza del prezzo del carbonio sotto forma di dividendi uguali per ogni persona nel paese o nello stato che attua la politica. Il governo del Canada ha recentemente annunciato che introdurrà dividendi del carbonio nelle province, compreso l’Ontario, che non hanno già un prezzo del carbonio. I dividendi del carbonio sono un esempio di reddito universale da una proprietà universale – il concetto che ho citato in precedenza – la proprietà in questo caso essendo la limitata capacità della biosfera di assorbire emissioni di carbonio. Le persone pagano per il loro uso della risorsa scarsa – i ricchi, che solitamente hanno la maggiore impronta carbonica perché consumano di più, pagano più degli altri – e tutti ricevono un dividendo uguale in base alla proprietà comune. Con una politica di prezzo e dividendi del carbonio la maggioranza delle persone, comprese famiglie a basso reddito e della classe media, si troveranno meglio monetariamente, senza nemmeno contare i benefici di frenare il cambiamento climatico. I loro dividendi più che compenserebbero quanto pagano in prezzi più elevati dei combustibili fossili, contribuendo ad assicurare un sostegno durevole alla politica.

L’insufficienza delle politiche climatiche inique è stata dimostrata recentemente in Francia dalla rivolta dei “gilet gialli” contro il governo del presidente Macron, scoppiata dopo che il suo governo aveva imposto nuove tasse sulla benzina e il diesel nel nome della lotta al cambiamento climatico. In tutto il paese lavoratori in difficoltà sono scesi in piazza per protestare. Macron, hanno affermato, “parla della fine del mondo mentre noi parliamo della fine del mese”. I sondaggi hanno mostrato che una vasta maggioranza dei francesi era d’accordo. La nuova tassa era piuttosto modesta – avrebbe aggiunto 35 centesimi di dollaro al prezzo al gallone del diesel e 12 centesimi al prezzo al gallone delle benzina – ma è stata sufficiente per provocare una reazione così violenta che il governo ha deciso di sospendere la politica.

La lezione è chiara: per essere politicamente sostenibili le politiche climanti devono essere considerate economicamente eque.

C.J.Polychroniou è un economista politico/politologo che ha insegnato e lavorato in università e centri di ricerca in Europa e negli Stati Uniti. I suoi principali interessi di ricerca sono l’integrazione economica europea, la globalizzazione, l’economia politica degli Stati Uniti e la decostruzione del progetto politico-economico del neoliberismo. E’ un collaboratore regolare di Truthout e anche membro del Public Intellectual Project di Truthout. Ha pubblicato numerosi libri e i suoi articoli sono apparsi in una varietà di riviste, periodici, giornali e siti giornalisti popolari in rete. Molte delle sue pubblicazioni sonos tate tradotte in numerose lingue straniere, tra cui croato, francese, greco, italiano, portoghese, spagnolo e turco. E’ autore di Optimism Over Despair: Noam Chomsky on Capitalism, Empire and Social Change, un’antologia di interviste a Chomsky in origine pubblicate presso Truthout e raccolte da Haymarket Books.             

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/oligarchy-is-destroying-our-society-and-the-planet/

Originale: Truthout

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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