Le manifestazioni sindacali che oggi si terranno in varie regioni italiane sono un primo importante segnale di malessere sociale nei confronti della legge di bilancio del governo Meloni. La non omogeneità delle tre confederazioni su una piattaforma nettamente condivisa è, d’altro canto, il ripetersi di uno schema divisorio già osservato sul giudizio dato dalla CISL in merito alla manovra preecedente, quella del governo di unità nazionale di Draghi.

Chi vuole leggere in tutto questo una linearità di coerenza può disinvoltamente farlo: probabilmente proprio di questo si tratta. Come già è capitato di osservare, la cosiddetta “agenda Draghi” è stata – e non poteva del resto essere altrimenti – assorbita dall’esecutivo Meloni, mentre le sono stati messi a contorno una serie di provvedimenti peggiorativi in materia di sanità, pensioni, fisco, scuola e infrastrutture.

Il comparto sociale complessivo ne esce debilitato, mentre la spesa militare aumenta, mentre si sostiene senza alcun pudore un ceto medio a cui si abbassa la tassazione con le aliquote dell’appiattimento fiscale tanto caro ai leghisti (ma non solo a loro…), mentre quindi si privilegia una parte del Paese a tutto discapito di un’altra, molto più grande, parte.

La risposta di CGIL e UIL è, parimenti a quella della CISL, ugualmente coerente: le rivendicazioni rispetto alle enormi mancanze che si registrano sul piano sociale nella legge di bilancio sono molto simili a quelle che si esigevano durante il governo di Mario Draghi.

L’aumento dei salari e l’adeguamento delle pensioni all’impennata inflazionistica erano e rimangono esclusi da una politica oggettivamente liberista, che preserva quella parte produttiva del Paese che è autonoma e non dipendente, che sostiene le grandi imprese con le destinazioni dei capitoli di spesa del PNRR, che quindi fa scelte di classe molto precise.

Anche chi aveva accantonato per qualche decennio la parola “capitalismo“, sostituendola con il concetto di “modernità imprenditoriale“, oggi è costretto a ricredersi sulla spinta energica di una crisi economica che verte, prevalentemente, sull’adeguamento dell’andamento del Paese agli standard di una finanziarizzazione bellica del contesto attuale di un continente in preda ai deliri putiniani ad Est all’imperialismo speculare della NATO e degli USA ad Ovest.

Siamo circondati? Sì e, siccome i cerchi sono concentrici e ci comprimono verso il centro di una politica che si fa sempre più stringente sui diritti sociali, tralasciando al momento l’attenzione su quelli civili, quello che maggiormente si avverte come silenzio assordante, come grande assente è un fronte di sinistra e di progressismo socialista, comunista e libertario capace di opporre nettamente una alternativa tanto alla narrazione quotidiana delle magnifiche sorti del governo delle destre, quanto all’inefficienza di una opposizione inerte, priva anche soltanto di un flebile tatticismo di facciata.

La giustificazione, ciò che resta del PD in quanto tale, viene attribuita alla ricalibratura complessiva di un grande soggetto riformatore che dovrebbe avere come programma una nuova discriminante sociale, una attenzione più risoluta ai bisogni di un proletariato modernissimo nell’essere soverchiato dalla precarietà e dalla indigenza crescente.

All’azione del sindacato, che scende nelle piazze, che comunque si fa sentire e porta i lavoratori a manifestare e astenersi dal lavoro nei settori nevralgici della vita quotidiana, non corrisponde – ecco il punto focale – una sinistra di opposizione che ne interpreti le istante in tutto e per tutto.

Se guardiamo al PD, solo una parte della piattaforma enumerata da CGIL e UIL viene assunta come piano di opposizione qui ed ora. Se guardiamo ai Cinquestelle, manca comunque sempre una visione di insieme che sia ascrivibile ad una critica radicale di un sistema economico entro cui, del tutto “naturalmente“, queste politiche di governo possono e, infatti, vengono portate avanti.

Mentre ai democratici risulta non pervenuta, non percepibile e irrintracciabile una riconversione progressista che escluda la tentazione centrista, lasciando il campo progressista aperto all’ipotesi di essere quel campo liberale che un po’ da sempre è, nonostante sia Bonaccini sia Schlein affermino di voler dare al PD un nuovo corso proprio sul piano dei diritti dei lavotatori e di chi sta peggio, al partito di Conte continua a difettare l’origine populista che non ne consente la certificazione di qualità, la sicurezza che la “svolta progressista” sia definitiva e sia ormai irreversibile.

Insomma, il dubbio duplice che, tanto il PD quanto l’M5S, possa avere un rigurgito di ritorno alle proprie origini è assolutamente legittimo, sostenuto dal fatto che l’unica alternativa che sanno costruire alle destre è esclusivamente sul terreno dei diritti civili, mentre su economia, lavoro, pensioni, sanità, scuola, ambiente è davvero molto difficile poter dire di riconoscere una convergenza tra queste due forze di opposizione.

Dunque, il sindacato si ritrova politicamente solo e, tuttavia, vista la crisi verticale di credibilità che proprio la politique politicienne italiana ha registrato in questi ultimi anni in una crescita veramente esponenziale, può trovare una qualche forma di autoconsolazione nell’essere ancora l’ultimo, e forse anche l’unico, protagonista della vita sociale di massa di una classe che troppi hanno fatto e fanno finta di non riconoscere come tale: quella del mondo del lavoro salariato, del lavoro dipendente, parcellizzato, precarizzato, iper-sottopagato, sfruttato come mai era accaduto nel corso di questi ultimi trenta, quarant’anni.

La necessaria inversione di tendenza politica dovrebbe, anzitutto, tenere conto dello stato di salute dei corpi intermedi: prima di tutto del sindacato, che è un pilastro di democrazia tanto del lavoro quanto della Repubblica. La fondatezza dell’Italia post-bellica non sul profitto privato ma sulla forza della “working class“, ancora oggi dovrebbe ispirare la ricomposizione di una sinistra sia moderata sia apertamente anticapitalista e antiliberista.

La centralità del lavoro significa valorizzazione di ogni settore sociale che vi è intrinsecamente e indissolubilmente legato: il sistema scolastico che lo precede, quello pensionistico che lo segue e tutti gli altri diritti che permettono al cittadino, al lavoratore di, proprio in senso marxiano, esistere oggi per continuare ad esistere domani. Ma non semplicemente come pezzo di un meccanismo produttivo, parte di un ingranaggio di una macchina privata o pubblica di generazione di ricchezza.

Una sinistra progressista e di classe oggi deve ritornare a porsi il problema del ridimensionamento del ruolo privato nell’economia che non è solo più “nazionale“, ma parte di un sistema quanto meno continentale, dentro un contesto globale ineludibile.

I sindacati di base, la CGIL e la UIL hanno, a differenza della CISL, criticato, anche se da punti di vista e con toni ed espressioni di proposte differenti, una manovra economica ed un governo che intendono preservare quel liberismo draghiano tanto piacevole per l’Europa di Bruxelles e Francoforte, unitamente ad una coltivazione di un consenso popolare che trovi nella divisione tra i poveri, nella lotta interna alla classe la distrazione antisociale migliore per consolidare il nuovo regime dei padroni.

Se il PD, per inseguire un nuovo posto tra le forze del liberismo europeista e atlantista, lascia in solitaria lotta il sindacato; se il Movimento 5 Stelle, pur sposando una linea marcatamente di sinistra (o quasi), ancora non può essere – semplicemente perché esso stesso non si definisce – di sinistra, tocca allora ad una sinistra diffusa riconnettersi, ricongiugersi e progettare un nuovo “partito del lavoro“, una federazione di forze che abbiano, quanto meno, gli stessi obiettivi che oggi la CGIL e la UIL propongono come capovolgimento sociale della manovra antisociale del governo.

L’appello, in questo caso, deve riguardare tutte e tutti coloro che rifiutano fotocopie del passato, di un progressismo cedevole, dialogante con un centro che ha trasformato la sinistra in altro da sé stessa a furia di compromessi che sono diventati sempre più compromissioni e accettazioni definitive delle linee guida del mercato e del capitalismo nella sua esplicazione modernamente liberista: dagli anni ’70 del secolo scorso fino ad oggi.

Non è la CGIL ad essere sola. Lo sono quei sindacati che scelgono oggi di compatibilizzare le proprie posizioni con quelle di un governo da cui si attendono riforme sociali impossibili, nemmeno lontanamente immaginibili o anche solamente interventi sulla legge di bilancio che non miglioreranno affatto le condizioni di disagio diffuso dei lavoratori e dei pensionati, degli studenti e dei precari.

La CGIL non è sola affatto e forse nemmeno noi, in fondo, lo siamo. Ma siamo entrambi orfani di una sinistra politica di cui sentiamo tutta la necessità e l’urgenza. L’Unione Popolare che vogliamo costruire deve darsi questa direzione prioritaria: dialogo, interazione, progressismo diffuso ma pure risolutezza nell’affermare i princìpi di una alternativa netta e riconoscibile proprio dai precari e dai lavoratori per i precari e i lavoratori stessi.

Se i comunisti oggi hanno un compito preciso, ebbene è proprio questo.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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