Madide nottate, calura insopportabile che tuttavia bisogna sopportare, abitudine a tirare tardi la sera. Perché di notte ci si avvicina ad una foscoliana quiete, magari non proprio fatale, ma almeno più distensiva del chiarore del giorno che richiama all’esercizio costante della vita. Una fatica…

A me l’estate è sempre piaciuta e ne farei la stagione delle stagioni, le dedicherei tutto l’anno, pur essendo consapevole che la particolarità di ogni parte dell’anno è preziosa, è pure gradevolmente auspicabile dopo un po’: siamo esseri certamente abitudinari, noi umani, ma siamo anche esseri che scadono presto nella noia, nella ripetizione non congeniale di eventi, fatti che si dispongono a mo’ di ritmi e che ci perseguitano fino a farci dire: “Giorni tutti uguali“.

C’è chi se li augura e c’è chi invece ne vorrebbe fuggire. A parte tutto ciò, nelle afose nottate di fine luglio e di inizio agosto, si può trovare un po’ di consolazione nella televisione, laddove si parla di televisione stessa, della “casa degli italiani al tempo del boom” (si veda a proposito l’ottimo programma condotto da Paolo Mieli su Rai Storia “Passato e presente“) e si far specifico e corretto riferimento al fatto che non fu la tv a cambiare la vita degli italiani ma semmai a mostrare come le consuetudini e gli stili di comportamento quotidiano variavano nel mondo a seconda del grado di sviluppo economico raggiunto nel dopoguerra.

E’ una osservazione molto interessante, perché smonta tutto un paradigmatico assemblaggio di preconcetti attribuiti negativamente al televisore in quanto invasore di campo nelle nostre esistenze, modificatore delle abitudini e influenzante pericolosamente la stabilità dei nostri portafogli con l’immissione nel nostro cervello di un indiretto, invisibilissimo virtuale micro-chip chiamato “voglia di consumare“: per l’appunto il fenomeno consumistico moderno.

Nessuno osi negare che tutto questo è il risultato finale della diffusione di massa del mezzo televisivo già a partire dagli anni a cavallo tra il 1965 e lo scoppio delle grandi rivolte studentesche e giovanili del biennio ’68-’69 e poi di quelle operaie (e nuovamente legate anche al mondo della scuola) più propriamente individuabili nel chiasso degli anni ’70, quando esplode la furia terrorista, quando l’Italia è costretta a confrontarsi con una incertezza politica che viene anche da lontano, dal Cile di Allende poi in mano al fascista Pinochet.

Nelle meteorologicamente calde notti estive, capita di riflettere su aspetti anche antropologici di una società che i mezzi di comunicazione di massa hanno radicalmente cambiato, ma che sono stati sempre introdotti dopo una attenta preparazione che potremmo definire quasi “sociale” (e “social“… oggi…), visto che la pubblicità è l’anima del commercio e che sempre di riflesso le nuove tecnologie che invadono i mercati americani ed asiatici arrivano, un nanosecondo dopo, ma pur sempre dopo, nella nostra Europa.

Curioso l’esempio del frigorifero: mentre in Italia nel 1963 si mostrava nelle trasmissioni della RAI come utilizzarlo e si facevano veri e propri servizi giornalistici sulla conservazione dei cibi nei differenti scomparti di uno dei più rivoluzionari (questo sì…) elettrodomestici che siano mai entrati nelle nostre vite casalinghe, negli Stati Uniti d’America già nei film degli anni ’50 si vedono immagini dove donne e uomini lo usano senza alcun bisogno di essere istruiti su come aprirlo, pulirlo, su dove posizionare gli alimenti…

Noi siamo sempre in ritardo rispetto ai centri di sviluppo dell’economia capitalistica. E se prima erano gli Stati Uniti l’unico motore del moderno capitalismo (non ancora del tutto globalizzato per come oggi lo intendiamo), con la fine dell’impero sovietico e la creazione del libero mercato anche nella totalità dell’Asia e nel resto dell’Europa dell’Est, oggi sappiamo bene che, dopo la corsa alla modernizzazione operata dal Giappone (con il sostegno non indifferente degli USA), dalla Russia alla Cina, dall’India al Medio Oriente, i poli concorrenziali si sono sviluppati senza alcuna sosta e si contendono primati economici in svariati campi, ora sì su scala globale.

Prendendo in esame il Novecento e poi i primi venti anni di questo nuovo secolo e millennio, non è difficile scorgere una accelerazione incredibile sullo sviluppo delle tecnologie che hanno cambiato talmente tanto le nostre giornate da intervenire nelle modalità di comunicazione politica, sociale, economica: la digitalizzazione dei settori industriali, delle borse, dei sistemi finanziari e bancari è una rivoluzione così dirompente da far impallidire l’introduzione del televisore nelle case degli italiani a fine anni ’50, con “comode rate“, portandolo dall’essere protagonista nei bar di ogni paese al salotto o tinello di ogni abitazione, anche la più proletaria dell’epoca.

Internet, del resto, è la vera, grande rivoluzione che la globalizzazione esige, si porta appresso e che permette di ridurre ancora di più le distanze, di accorciare i tempi e di massificare produzioni, consumi. Tutto è fatto in sempre meno tempo, con il rischio di un innalzamento dell’approssimazione, mediante uno sfruttamento a livelli di schiavismo (si pensi alle catene di imballaggio delle grandi multinazionali che spediscono a casa nostra qualunque genere di merce acquistata online… oppure alle corse in bicicletta dei riders…) e senza che la vita di ciascuno ne trovi un beneficio concreto, monetizzabile.

Avremo a casa il telefonino o l’asciugacapelli in un giorno soltanto, pur provenendo questi dalla Spagna o dall’Inghilterra, ma la qualità della vita non migliora per noi, che non riusciamo a mettere da parte un solo euro di risparmio, e non migliora per i lavoratori che consentono – con i ritmi estenuanti cui sono sottoposti – questi servizi apparentemente innovativi e strabilianti.

La meccanizzazione dei processi produttivi non è sufficiente a reggere da sola i ritmi e per questo rimane sempre e soltanto la forza-lavoro umana quella da cui si può estrarre maggiore profitto mediante uno sfruttamento a cui la macchina mette il limite della propria portata di impiego. Un ventilatore, un condizionatore d’aria hanno un limite oltre il quale non possono andare. Al lavoratore, che ha anch’egli un limite prestabilito dalle sue forze, viene chiesto di oltrepassarlo, di tentare sempre di farlo, di sforzarsi: quindi di fare forza oltre la forza.

Lo sviluppo moderno delle nostre vite negli anni del “boom economico” del dopoguerra univa unità di tempo della produzione a qualità del prodotto. Si produceva un bene di consumo con la filosofia aziendale che legava “il buon nome” della ditta al marchio impresso sui suoi elettrodomestici.

La gara concorrenziale non avveniva soltanto sui grandi numeri, sulla potenza della domanda, ma pure sulla qualità dell’offerta. Senza banalizzare, risulta oggettivo il fatto che ci parla di una estensione così vasta della produzione da non prendere più in considerazione un lavoro “di cesello“, una accuratezza messa nella dimensione più ridotta di fabbriche e aziende pure grandi ma mai al livello delle interazioni tra le multinazionali odierne.

La specializzazione produttiva di un tempo oggi può essere considerata una sorta di archeologia industriale, un artigianato su vasta scala che può conservare e riservarsi chi sceglie quel tipo di politica aziendale, magari legata alle particolarità di un territorio, alla valorizzazione di certe “eccellenze“.

Ormai i produttori di un elettrodomestico soltanto sono irrintracciabili sul mercato mondiale: la spietatezza della concorrenza li schiaccerebbe come piccole formiche sotto il pesante e incurante passo di una scarpa dal grosso carro armato.

In sintesi, se negli anni del grande miracolo economico italiano l’unità tra costruzione delle garanzie dello stato-sociale, le lotte dei lavoratori e degli studenti, le lotte delle donne e il tentativo di rafforzamento della neonata democrazia repubblicana permisero uno sviluppo che univa pubblico e privato, che metteva ogni tanto il profitto in secondo piano rispetto alla stessa, complessiva qualità generale della vita, oggi la globalizzazione neoliberista ha messo da parte qualunque scrupolo in tal senso.

Salvo sbattere il muso contro il Covid-19 e dover fare i conti con l’inaspettata pandemia. L’imprevisto può avere anche un ruolo di primo piano nell’edificazione di un cambiamento sociale, pure duraturo nel tempo. Ma senza un vasto consapevole movimento di massa che coinvolga i moderni sfruttati in un rinnovato antagonismo di classe, anche il potente coronavirus, l’invisibile nemico “democratico“, che tutte e tutti può colpire ma che fa certamente più vittime tra i popoli meno pronti a difendersi, privi di adeguati standard medici e scientifici, alla fine sarà piegato dal capitalismo al suo volere. A cominciare, si intende, dal commercio legale o meno del vaccino che vedrà – ci auguriamo, nonostante tutto, presto – la luce.

MARCO SFERINI

1° agosto 2020

foto: screenshot

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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