Quando l’Africa urbana è il focus del discorso, il registro diventa immediatamente straordinario, i problemi irrisolvibili e la situazione apocalittica: lo sguardo apocalittico sui processi d’urbanizzazione africana oscura l’agency dei cittadini nel far fronte alle difficoltà della vita quotidiana e far funzionare la città
Quando si parla di Africa, le prime cose che vengono in mente saranno verosimilmente la sua natura o una romantica fantasia della vita nei suoi villaggi. Con ogni probabilità è nel caso in cui ci si interroghi sui problemi e sulle caratteristiche negative del continente che le città si prenderanno la scena. Violenza, povertà, malattie, condizioni igieniche e abitative sono questioni presenti nei contesti urbani africani e che limitano le possibilità dei cittadini di trovare la propria via per una buona vita. Tuttavia, anche le città del Nord del mondo devono fare i conti con le stesse problematiche: i senzatetto di Los Angeles, l’immondizia di Roma, l’elevato numero di sparatorie di diverse città statunitensi, i costi degli affitti di Londra e Parigi, la Covid-19 in ognuna di queste.
Eppure quando l’Africa urbana è il focus del discorso, il registro diventa immediatamente straordinario, i problemi irrisolvibili e la situazione apocalittica.
Uno degli esempi più limpidi in questo senso è l’analisi di un importante teorico urbano come Mike Davis, il quale ne Il Pianeta degli Slum afferma che «la situazione dell’Africa, si capisce, è ancora più estrema. Gli slum africani stanno crescendo a una velocità doppia della deflagrazione delle città del continente. In pratica, un incredibile ottantacinque percento della crescita della popolazione del Kenya tra il 1989 e il 1999 è stato assorbito dai fetidi e sovraffollati slum di Nairobi e Mombasa. Intanto, ogni realistica speranza di una mitigazione della povertà urbana dell’Africa è svanita dall’orizzonte ufficiale. […] Così le città del futuro, lungi dall’essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del Ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo» (M. Davis, Il Pianeta degli Slum, pp.23-24).
Certo, le condizioni materiali nelle città africane sono spesso instabili e disuguali: la crescita della popolazione urbana non è stata accompagnata praticamente in nessuna città del continente da un adeguato rafforzamento delle infrastrutture causando continue crisi idriche e elettriche; l’estrema disuguaglianza che divide l’élite cittadina dal resto della popolazione si riflette nel proliferare di gated communities, ovvero interi quartieri recintati da mura e con sorveglianza all’ingresso; il cosiddetto lavoro informale, praticato dalla maggioranza degli abitanti delle città, oltre a provocare rapidissime ascese e cadute economiche, impedisce di fare progetti e investimenti a lungo termine.
Tuttavia lo sguardo apocalittico sui processi d’urbanizzazione africana oscura l’agency che di volta in volta i cittadini mettono in campo per far fronte alle difficoltà della vita quotidiana e per far funzionare la città, grazie a una rete di relazioni in cui le persone agiscono da infrastrutture, per usare una brillante definizione dell’urbanista AbdouMaliq Simone.
Evitando da un lato la narrazione catastrofista e dall’altro quella romantica rispetto alla resilienza delle persone, lo stesso Simone descrive così il rapporto tra le città africane e i loro abitanti: «spinte da discorsi di guerra, contestazione e sperimentazione, molte città africane sembrano costringere i loro abitanti a cambiare costantemente equipaggiamento, obiettivo e luogo. […] Questo “senso di preparazione”, la prontezza a cambiare equipaggiamento, ha implicazioni significative per ciò che i residenti pensano sia possibile fare in città. Le famiglie mostrano notevole determinazione e disciplina, risparmiando denaro nel corso di diversi anni per mandare i bambini a scuola, costruire una casa o aiutare i membri della famiglia a migrare. Sono in un posto e dimostrano attaccamento ad esso».
Tuttavia i territori urbani su cui le persone investono i propri capitali economici e sociali hanno un senso di esteriorità che impone loro di essere sempre pronti a partire. «Il riferimento di questo “esterno”sono state comunemente altre città, sia all’interno che all’esterno del continente. Sempre di più comprende vari interni: aree rurali, confini e frontiere. Questi interni possono anche essere simbolici o spirituali e coinvolgere geografie fuori dalla mappa, come dimostrato dalle descrizioni popolari di città sotterranee, mondi spirituali o frontiere redditizie ma remote. Le città si trovano a cavallo non solo delle divisioni interne ed esterne e dei confini nazionali e regionali, ma anche di un’ampia gamma di terreni e geografie, sia reali che immaginarie» (A. Simone, People as Infrastructure, pp.424-425).
Inoltre il contesto urbano rimane un’importante opportunità di emancipazione sociale, in particolare per i giovani. In società dove tanto la sfera privata, il compound, ovvero la struttura di abitazione più diffusa in Africa, quanto quella pubblica sono dominate dagli anziani, i giovani vivono in una costante condizione di dipendenza economica e morale.
«Esclusi dalle arene di potere, lavoro, educazione e tempo libero, i giovani africani costruiscono luoghi di socializzazione e nuove socialità, la cui funzione è quella di mostrare la loro differenza, ai margini della società o nel suo cuore, simultaneamente come vittime e agenti attivi e circolando in una geografia che sfugge ai limiti del territorio nazionale» (M. Diouf, Engaging Postcolonial Cultures, pp.5). Per i suoi spazi e i suoi tempi è la città il luogo nel quale i giovani possono più facilmente eludere il controllo degli anziani, trovare opportunità di lavoro che permettano di allentare il rapporto di dipendenza dalla famiglia, sperimentare pratiche “moralmente proibite”. Dunque i contesti urbani in Africa sono sì attanagliati da problemi che minano le possibilità di crescita, ma nel momento in cui si ricercano le ragioni di questi problemi fuori dalla cornice dell’ordinario e del materiale, si finisce per essenzializzarle in dibattiti estremamente problematici. Guardare esclusivamente le difficoltà che i processi di urbanizzazione incontrano, impedisce di vedere le possibilità che questi creano per le persone che attraversano la città.
Infine un altro “peccato” mai redento delle città africane sarebbe quello di non essere abbastanza moderne. Quando si parla di globalizzazione, ad esempio, raramente entrano nel discorso come soggetti attivi (basti pensare alla loro assenza dalla fondamentale opera di Saskia Sassen sulle città globali). Tuttavia è impossibile affermare che l’Africa ne sia rimasta esclusa: anche se si volessero prendere in considerazione i soli processi estrattivi da parte di altri paesi, sarebbe improbabile riuscire a portarli a termine senza infrastrutture e reti logistiche interconnesse col resto del mondo.
In termini di esperienza culturale le città africane sembrano portarsi dietro le usanze e le istituzioni dei villaggi: l’importanza dei capi tradizionali per la proprietà della terra, le divisioni etniche, la famiglia estesa, le asimmetrie di genere e quelle generazionali.
Questo può portare alcuni a vedere le tradizioni rurali come dominanti e dunque la città semplicemente come un villaggio di dimensioni più ampie. Ma non è così, infatti queste usanze e istituzioni hanno un ruolo e un significato diverso se sono praticate in contesti rurali o urbani.
Come affermato dall’antropologo James Mitchell, un’istituzione urbana «non è un’istituzione rurale modificata: è un fenomeno sociale separato, esistente come parte di un sistema sociale separato» (J. Mitchell, Theoretical Orientations in African Urban Studies, pp.48). Dunque, anche quando delle istituzioni urbane ricordino, più o meno marcatamente, quelle rurali del passato, vanno considerate come pienamente moderne.
È importante tuttavia non cadere nella trappola della romanticizzazione delle “modernità alternative” africane: «gli antropologi oggi sono ansiosi di dire quanto sia moderna l’Africa. Molti africani potrebbero grattarsi la testa sentendo tale affermazione. […] Gli antropologi si riferiscono alle pratiche culturali e alla loro storicità precedentemente non apprezzata; quindi, l’Africa è moderna, non “tradizionale”. Ma gli africani che si lamentano del fatto che le loro circostanze di vita non sono abbastanza moderne non parlano di pratiche culturali. Parlano invece di quelle che considerano condizioni socioeconomiche vergognosamente inadeguate e del loro basso rango globale in relazione ad altri luoghi» (J. Ferguson, Global Shadows, pp.185-186). Quest’ultima affermazione non è in contraddizione con quanto detto finora, al contrario conferma semplicemente la necessità di considerare le città dell’Africa come città ordinarie, con problemi, conflitti e soluzioni ordinarie, all’interno di una mappa di città globali dalla quale troppo spesso sono state tenute fuori.