Quando ero poco più di un ragazzo, diedero nei cinema un film intitolato “Wargames – giochi di guerra“. Un adolescente espertissimo di computer, che oggi eticheteremmo come “nerd” e “hacker“, si intrufolava nei segreti più nascosti delle case produttrici di videogiochi per carpirne le dinamiche, gli sviluppi. Non troppo causalmente, ma quasi, David si imbatteva un giorno nel sistema informatico della Difesa statunitense, arrivando a dialogare col super cervellone “NORAD“: un complicatissimo calcolatore di probabilità di successi e insuccessi nell’eventualità di una guerra atomica tra USA e URSS.

Il film è molto accattivante, seppure sempliciotto, e a noi pubescenti dell’epoca piaceva tanto quanto Galaga e gli altri sparattutto che potevi giocare al bar mettendo cento lire nella fessura delle monete. Se avete occasione di rivederlo non vi pentirete di aver messo a confronto l’ieri con l’oggi.

Se la storia di David e di NORAD era un insegnamento al disincentivo della violenza, all’abbandono del continuo fronteggiarsi delle due superpotenze sul terreno della minaccia reciproca nucleare, oggi accade esattamente il contrario.

Nonostante gli appelli del papa a rompere lo “schema della guerra“, quindi la necessità della vittoria a tutti i costi di uno dei due contendenti sul campo (e per essere chiari, qui si sta parlando della Russia da un lato e dell’Alleanza atlantica e degli USA dall’altro…), aprendosi ad una fase interlocutoria e diplomatica, gli ultimi proclami di Stoltenberg e Biden non hanno lasciato spazio a tante speranze.

Improvvisamente, oltre tutto, l’altro fronte, quello asiatico, si è spostato dalla crisi di Taiwan a quella tra Corea del Nord e Giappone.

E sappiamo bene che i nipponici sono alleati ormai storici degli Stati Uniti e che, quindi, se due missili sorvolano le prefetture nord orientali dell’arcipelago imperiale e poi piombano nel mare limitrofo, non si tratta di una semplice esercitazione, ma di una vera e propria provocazione. Che risponde ad altre provocazioni, con la marina di Tokyio e quella di Washington che fanno esercitazioni tra lo stretto di Corea e le acque di Pyongyang.

Qualcosa vorrà pur significare tutto questo. E, probabilmente, significa che l’obietttivo di Biden e della NATO è mantenere in tensione internazionale più punti critici e strategici al tempo stesso sull scenario globale, così da destabilizzare un quadro europeo dove la guerra convenzionale viene, al momento, persa dalla Russia e dove l’avvicinamento dell’Alleanza atlantica all’Ucraina si fa sempre più pressante in termini oltremodo politici, insieme ovviamente al costante invio di armamenti sempre più sofisticati e minacciosi nei confronti del nemico.

Quando NORAD inizia a giocare sul serio, mentre tutti i gli alti in grado dell’esercito, dell’aviazione e della CIA pensano ad un bluff, è proprio il giovane David ad avvertire la minaccia incombente: la tattica dentro una strategia più arzigogolata, che oltrepassa i manuali militari, le manovre della guerra classica e che sta per far fare il salto di qualità ad un conflitto che si preannuncia totale e totalmente devastante.

Oggi il pontefice, e pochi altri esponenti politici, leader di paesi e capi di governo, rimarcano la necessità di una interruzione della dialettica bellica, della risposta delle armi alle armi, del conflitto al posto del confronto, dell’anatama reciproco al posto del dialogo.

Chi, a sinistra, in Italia (e non solo) si è permesso di parlare di pace senza se e senza ma fin dall’inizio, è stato deriso e trattato come un sognatore romantico, privo di quel necessario pragmatismo che intendeva portare un po’ tutte e tutti sul terreno della “guerra giusta“, quella di difesa degli ucraini, contro l’aggressione folle di Putin.

Non solo non può esistere alcuna guerra giusta in questo disgraziato mondo, ma neppure è pensabile ancora che siano gli ucraini a sconfiggere sul terreno i russi e a liberare la regione di Kharkiv e ad avanzare verso Kherson.

Mercenari, militari di ogni paese limitrofo all’Ucraina, col sostegno degli armamenti inviati da mezzo mondo, affiancano le truppe di un Volodymyr Zelens’kyj che ricalca pari pari gli anatemi di Stoltenberg, parafrasandoli nel contesto del conflitto propriamente guerreggiato: «…per escludere la possibilità dell’uso di armi nucleari da parte della Russia, la Nato dovrebbe colpire preventivamente…».

E’ un po’ la logica del super computer NORAD che gioca alla guerra termonucleare globale: spara missili su missili e non si ferma mia. Ad un attacco russo ne segue uno americano, senza sosta, senza che vi sia il tempo di fermarsi a riflettere un attimo sui danni. Il cervellone elettronico della Difesa statunitense non ha empatia verso niente e nessuno, agisce per calcolo tattico, su una strategia di lungo corso che non prevede la salvezza del genere umano e che, quindi, è disposta a mettere in conto l’estinzione dello stesso. Nel nome dell’impossibile resa di uno dei due contentendi.

La tragedia diventa farsa quando, dopo l’intervento del presidente ucraino al centro studi “Australian Lowy Istitute“, dalle parti di Stoccolma si vocifera di una possibile competizione tra lui e Navalny, ed anche Greta Thunberg, all’assegnazione del Nobel per la pace.

Se la parola ha ancora un senso, se lo meriterebbe forse solo la giovane attivista ecologista. Ma i “valori” occidentali sono a senso unico e guardano dall’alto dell’etica a stelle e strisce un mondo che non la pensa tutto quanto esattamente come gli Stati Uniti d’America o l’Europa dei ventisette sempre più divisa e sempre più inconsistente in questi scenari epocali. Sono contraddizioni che fanno il paio con una costruzione continua di una narrazione che vede tutti buoni da una parte e tutti cattivi dall’altra.

I pacifisti come noi, come il papa, come tanto un mondo cattolico di base quanto un mondo di sinistra e progressista che dal principio rifiuta il riarmo come condizione per la fine del conflitto, hanno gli strumenti critici necessari per stabilire una sempre più evidentissima equivalenza tra le due visioni geopolitiche e imperialiste che si fronteggiano sulla pelle degli ucraini e che ci stanno portando a discutere di scenari da brivido, dove il baratro dell’inconcludenza politica coincide con quello della tatticità nucleare.

In alternativa, una parte del mondo politico italiano si ostina a rivendicare le scelte del governo Draghi sull’invio delle armi e sulla difesa dell’Ucraina facendo ancora finta di non vedere chi veramente è attore e promotore dell’escalation bellica. Il tutto mentre conviene – un po’ tardivamente… – che aver partecipato alla maggioranza di unità nazionale non ha proprio giovato alla causa di un progressismo di facciata dopo tanti anni di governi liberisti e di controriforme antisociali.

Nelle nove ore di discussione della direzione nazionale del PD, il tema della guerra non può non saltare fuori da quasi tutti gli interventi: viene letto alla luce della crisi economica, di quella pandemica, della destrutturazione di tutta una serie di solidità democratiche nazionali che stanno facendo dell’Europa un puzzle di pezzi che non combaciano più e che rischiano di andare a carte e quarantotto.

Ma, pur constatando la sua inadeguatezza nel rappresentare i ceti popolari, il mondo del lavoro e del vasto disagio saociale crescente, il PD non riesce ancora a fare una autocritica complessiva. Partendo proprio dal sostegno a tutto tondo della linea atlantica che è quella dell’espansione imperialista dell’economia e del militarismo – politico occidentale.

Così, le parole di Giuseppe Conte, che richiamano indistintamente tutte e tutti ad una grande manifestazione per la pace, appaiono per quello che alla fine sono: un appello ad una unità di massa, ad un risveglio delle coscienze per dare all’Italia e all’Europa (e al mondo intero) un segnale critico nel mezzo di un continente devastato dagli opposti sogni di ridefinizione dei confini geopolitici globali, dalla povertà incedente con una prepotenza liberista non del tutto nuova, da una crisi economica in cui anche gli scostamenti di bilancio sembrano sempre più dei pannicelli caldi su ferite conclamatamente cancrenose.

Lacerazioni per un’Unione Europea fragile nel suo essere dépendance di Washington, quartier generale della guerra per procura della NATO e campo base della stessa per le operazioni in Ucraina. Forse mai, dalla fine della Seconda guerra mondiale, una simile concomitanza di fattori distruttivi, socialmente e civilmente parlando, ha determinato una crisi tanto vasta e generale: nella guerra sul campo non si scontrano solo russi e ucraini ma tanti altri interessi e tanti soldati che, direttamente o meno, finiscono per rappresentarli.

Basti pensare all’allargamento della NATO ad Est che è, oggettivamente, uno dei motivi per cui Putin ha mosso guerra all’Ucraina: estendersi ad Ovest e compensare quella direttrice di avanzata dell’Alleanza atlantica nello spazio europo tradizionalmente assegnato alla sfera di influenza di Mosca e ben prima del 1945, dopo l’avanza dell’Armata rossa fin nel cuore del Terzo Reich.

Tutte queste considerazioni conducono ad una sola, imprescindibile esigenza. Raccogliere le tante voci che si spendono per la pace e farne un unico, grande movimento di massa, perché la potenza politica, economica, finanziaria e i giochi di guerra tra russi e occidentali sono veramente enormi in quanto a dinamismo e a velocità di concretizzazione. A questa enormità, noi pacifisti, noi internazionalisti, noi donne e uomini di sinistra, dobbiamo replicare mettendoci al servizio della costruzione di mobilitazioni permanenti in tutta Italia, in tutta Europa.

Dobbiamo scuotere il nostro Paese e il Vecchio continente, sottrarlo al letargismo inebriante del corso degli eventi che si vorrebbe inarrestabile e pragmaticamente piegato alla logica della vittoria dell’uno sull’altro, per arrivare a considerare nuovamente la pace come l’unica opzione possibile di una realpolitik che, alla fine, faccia gli interessi dell’intera umanità e del pianeta nel costringere alla dismissione della illogicità della prevaricazione e della supremazia. Ed anche della contesa costante che è, poi, niente altro se non uno dei motivi del riarmo e della riconsiderazione sciaguarata dell’opzione nucleare.

Questo movimento per la pace va stimolato ora più di quanto non si sia fatto in passato. La minaccia è enorme, la risposta dei popoli sia altrettanto.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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